Lo studio che presentiamo è stato pubblicato nell’ottobre del 1966 sulla rivista Yoga-mîmâmsâ edita dal Kaivalyadhâma Institute di Loņâvla (Bombay) ed è stato riproposto tradotto dall’inglese in versione assolutamente integrale in diversi numeri di Jyoti Yoga Darşanam (a partire dal numero 24 – luglio 98), rivista trimestrale pubblicata dal Centro Purna Yoga.
La Yoga- mîmâmsâ, fin dalla fondazione nel 1924, si è distinta per il taglio rigorosamente scientifico degli articoli e per l’approfondimento puntuale dei temi della disciplina, percorrendo le strade della ricerca all’interno del patrimonio delle tradizioni classiche.
Il lavoro sui Cinque testi dello Haţha mantiene ancora oggi tutta la sua vitalità e può essere di grande aiuto al lettore che voglia seguire una traccia chiarificatrice sul senso e le caratteristiche di opere cardine all’interno dell’universo Yoga.
I CINQUE TESTI DELLO HAŢHA (*)
Uno studio comparativo del Dr. S.A.SHUKLA
(A partire da questo numero – luglio 98, iniziamo uno studio della prestigiosa rivista YOGA-MÎMÂMSÂ di Loņâvla)
Parte prima
Ambito di studio
Ci si propone di intraprendere, nelle seguenti pagine, un’indagine comparativa dei testi, in modo da evidenziare le loro caratteristiche, comuni e distintive, riguardo sia al soggetto dell’argomento che al metodo della trattazione.
E’ evidente che questi testi riguardano innanzi tutto la teoria e la pratica dello Haţha Yoga, ma con enfasi diversa sulle due parti, cioè Haţha e Râja. Così, mentre la Gheraņda Samhitâ, la Haţhapradîpikâ e la Gorakşaśatakam possono essere prese in considerazione come classici manuali di istruzione alle pratiche dello Haţha Yoga, la Śiva Samhitâ e la Siddhasiddhântapaddhati si distinguono dagli altri (con implicito senso di superamento – n.d.r.), sia nel progetto che nell’attuazione. Per esempio, Śiva Samhitâ apre con una lunga esposizione sulla causa, la condizione e lo scopo della vita umana ed anche nei successivi capitoli la descrizione delle pratiche yogiche è mescolata con materiale della stessa natura. Siddhasiddhântapaddhati, che è fondata su toni ancora più elevati, profusamente tratta delle dottrine centrali del Nâthismo e menziona le pratiche Yoga semplicemente per mostrare la loro inadeguatezza a raggiungere la meta e la loro assoluta futilità se praticate per esse stesse, senza raggiungere la Paramapada(Siddhasiddhântapaddhati – cap. VI).
Retroterra Advaitico
La più singolare caratteristica comune che presentano questi testi è il retroterra filosofico che si rivolge verso la meta Advaita sulla quale sono costruiti i loro sistemi. Essa implica la realizzazione dell’Unità dell’Essere che è in diversi modi espressa come Auto-Realizzazione o l’Identificazione di, o piuttosto, come la fusione dello Spirito individuale nello Spirito Universale, o Śivaśaktisamâyoga, o come il Pindapadasamarasatva del Nâthismo.
Come il Siddhasiddhântapaddhati espone –
Śivasyâbhyantare śaktih śaktarâbhyantarah śivah
Antaram naiva jânîyât candracandrikayoriva SSP. 4.26
per esempio, Śiva dimora dentro Śakti. I due non dovrebbero essere pensati come differenti l’uno dall’altro, come la luna dalla luce della luna. (**)
Riferimenti a questo particolare obiettivo, cioè la appercezione dell’Unità dell’Essere, si trovano generalmente nei versi introduttivi che enunciano il soggetto del discorso (***)(cfr. GŚ 1.2; HP I -1.2; Gh. S I – 2.5; ŚS cap.I ). In secondo luogo, quando si descrivono i risultati (phala) cui si perviene mediante le pratiche Yoga individuali, gli autori evidenziano come c’è un sottile comune legame che collega queste pratiche e come queste, se debitamente eseguite, facciano avanzare, passo dopo passo, l’aspirante verso l’obiettivo portandolo inizialmente ad un funzionamento bilanciato della mente e del corpo. Infine, nella parte conclusiva dei testi, in particolare nella descrizione degli ultimi ben noti Yoganga, cioè Pratyâhâra, Dhâraņâ e Samâdhi, questo retroterra advaitico è sentito e tenuto in grande rilievo. In breve, attraverso i testi, questa meta della realizzazione del Sé è tenuta come una torcia per guidare l’aspirante. A questo fine, i testi non si stancano mai di ribadire che le pratiche dello Haţha Yoga sono impiegate semplicemente per servire il Râja Yoga. Gli autori dei testi spesso enfatizzano questa complementarità o piuttosto, il carattere integrale dei due tipi di Yoga, Haţha e Râja. Anzi, c’è piuttosto un evidente tentativo di uguagliare i due tipi di Yoga, rendendo Kumbhaka un’unità di tempo per misurare Dhâraņâ, Dhyâna e Samâdhi (GŚ. 96) (****).
Nel tentativo di dichiarare pubblicamente il fine Advaitico la ŚS. dedica, come menzionato sopra, un intero capitolo facendo uso del Mâyâvâda e di tutta la terminologia dei Vedanta Advaitici.
Siddhasiddhântapaddhati I, 2 virtualmente accetta l’Ajâtivâda riflessa nella Gaudapâdakârikâ II, e poi procede con una dissertazione sul Para Brahman espresso (e nascosto – n.d.r.) in termini di Nâthismo. In considerazione (nel senso di vista – n.d.r.) dell’obiettivo, e con il suo stile filosofico, Siddhasiddhântapaddhati definisce l’Āsana come svasva rûpe samâsannatâ cioè: risiedere nella propria natura; Dhâraņâ come sabâhyâbhyantara ekameva nijatattva-svarûpamevântahkaraņena sâdhayet, yathâ yadyadutpadyate tattannirâkâre dhârayet, cioè: fuori e dentro l’unica natura del Sé, egli familiarizzerebbe con il senso più profondo. Ogni qual volta una qualunque cosa sorga (nella mente – n.d.r.) ci si dovrebbe fissare nell’Assoluto senza forma, e non semplicemente fissare la mente su un particolare oggetto. Infine, definisce le Mudrâ come jivâtma-paramâtmanoreka-samvittih, e cioè: conoscenza dell’Unità del sé individuale con il Sé Supremo (SSP. VI – 30).
Avendo considerato la parte introduttiva dei testi in riferimento all’obiettivo dell’Advaita, procederemo ad esaminare alcune pratiche rappresentative dello Haţha Yoga descritte in essi per mostrare come gli autori abbiano abilmente amalgamato (nel senso di incastonato – n.d.r.) i prerequisiti dell’obiettivo nella struttura delle loro tecniche, in aggiunta alle qualificazioni richieste (prerequisite – n.d.r.) alla persona eleggibile a ricevere le istruzioni, in questa Tradizione.
Mente e Corpo
Al principio (nel senso di esordire – n.d.r.), noi dobbiamo notare che gli autori hanno chiaramente stabilito alcuni importanti fatti di base circa la relazione tra la mente e il corpo che facilita enormemente la comprensione del processo che trasforma l’organismo umano e lo qualifica per funzionare su piani più alti di pensiero ed esperienza.
Così, HP. IV – 22.24 stabilisce:
hetudvayam tu cittasya vâsanâ ca samîranah
tayorvinaşţâ ekamimstau dvâvapi vinaśyatah
tulakriyau mânasamârutau hi
cioè: “La mente è resa attiva da due cose, Prâņa e Vâsanâ … /CONTINUA/
* I Cinque testi sono: Gorakşaśatakam, Haţhapradîpikâ, Gheraņda Samhitâ, Śiva Samhitâ, Siddhasiddhântapaddhati.
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Prezioso articolo!
Grazie!
Buongiorno a tutti! l’articolo di sopra è molto bello. Vi faccio i miei complimenti.
Personalmente adoro il messaggio dell’Advaita, così semplice ed illuminante che, talvolta approfondendo un autore, che porta avanti una sua visione, si sviluppano alcuni suoi aspetti particolari e si rischia di non cogliere l’ovvietà a monte. Vorrei dare un piccolo contributo riassumendo il concetto di base dell’Advaita con un linguaggio accessibile.
C’è un unica sostanza, lo spirito eterno. Questo spirito eternamente “è” ma non si auto percepisce. Per percepirsi infatti bisogna essere almeno in due, c’è bisogno di un soggetto che vede un oggetto. Allora lo spirito si organizza in mille forme viventi, dotate di sensi tra le quali l’uomo.
Perchè lo fa? Per potersi percepire, conoscersi e fare esperienza di se, proprio tramite i sensi di queste forme viventi. Un esempio: L’uomo mentre vive in un ambiente diversificato, vede, sente tocca, il cane che a sua volta fa lo stesso con l’uomo, così vale per la capra, che esperisce la rondine ecc. Questa interazione continua è tutta un illusione perchè alla fin fine è lo spirito che vede se stesso tramite le forme viventi che ha creato. Compreso? Spero di si!
Adesso però viene il bello. In tutto questo gioco apparente, si genera un grave inconveniente.
Le forme interagiscono e si prendono sul serio, dimenticandosi di essere solo oggetti nelle mani dello spirito, si credono indipendenti ed autonome. In particolare l’uomo si crede indipendente e a se stante, si sente separato e per questo minacciato. Per questo motivo soffre. Per uscire da questa condizione (dovuta ad una erronea interpretazione) egli si pone degli scopi, lotta per obiettivi propri e soffre nella vita per ciò che non gli va bene. Ma questa lotta non fa altro che peggiorare le cose, perchè parte dal presupposto di un essere separato. L’Advaita afferma che per smettere di soffrire si debba uscire dall’illusione di essere soggetti a se stanti, riconoscere la verità di un unico spirito. Nel momento in cui ci si renderà conto di essere solo una forma che lo spirito si è data, scomparirà la soggettività e la sofferenza individuale che a lei si lega. Una volta compreso che l’uomo è in realtà spirito eterno, l’essere umano tornerà al vero Se. Con tale ritorno ogni sofferenza cessa in quanto non appartiene a nessuno, non è mai esistito nessun individuo separato ma solo lo spirito eterno, l’unica Coscienza. In questo senso veramente nessuno nasce e nessuno muore.
Un caro saluto.
Grazie Claudio! Il Maestro è d’accordo con te…..Om Shanti